Il passaggio storico che abbiamo vissuto il 25 agosto alle Nazioni Unite, con l’approvazione della nuova Convenzione per i Diritti delle Persone con Disabilità, lascia un segno emotivo indelebile, come un frammento di felicità irrazionale che sopprime ogni forma possibile di cinismo indotta da anni di militanza associativa.
Si abbandona il ruolo, si dismette l’abito, come se si fossero esaurite le motivazioni che hanno provocato l’impegno stesso. È pura leggerezza e lievità del vivere, incominciata con un gioioso e spensierato “ritorno al nido”, accompagnato dalle migliori libagioni possibili.
Poi, gradualmente, con il passare dei giorni, il recupero del raziocinio e le riflessioni sull’evento. Si perscrutano i comunicati stampa ufficiali delle Nazioni Unite, dell’IDC (International Disability Caucus) e del Ministero degli Esteri. Si passano sotto la lente d’ingrandimento gli appunti e gli articoli pubblicati da Giampiero Griffo in Superando.it, per rievocare le emozioni dei momenti, le esultanze e le contrarietà e per far tornare alla memoria le riflessioni e le considerazioni di ogni singolo episodio, anche l’emendamento più insignificante, anche gli interventi più insensati.
Appunti e dietrologie
Alcuni gesti appena annotati nel diario giornaliero assumono oggi un contorno di rilievo e di proporzione diversa. Salvo per rare occasioni, testimoniano la volontà e lo sforzo di giungere ad una positiva conclusione.
Il presidente del Comitato Ad Hoc, Don MacKay, che conosceva perfettamente lo spirito della sala, esortava di continuo le delegazioni, facendo leva sull’investimento politico ed economico sostenuto dai Paesi membri e dalle associazioni, legando questa considerazione al pericolo dell’ordinario turnover amministrativo nelle delegazioni.
Si sarebbe perduta l’esperienza, la storia del dibattito e tutto avrebbe dovuto ricominciare daccapo, con un evidente insuccesso dell’investimento già fornito e dello sforzo profuso, a fronte di un testo in bozza quasi completo che consegnava al dibattito non più di cinque-sei grandi punti di dissonanza.
Insomma, un argomento serio che dava l’esatta misura del termometro delle delegazioni presenti in aula, ma anche e soprattutto delle direzioni impartite dalle rispettive capitali.
Si temeva che un’eventuale forzatura di MacKay avrebbe potuto essere malvista dai Paesi membri. Si paventava una Convenzione indebolita, approvata contro la volontà di questi ultimi, grazie all’influenza e all’insistenza dell’”alto burocrate” delle Nazioni Unite MacKay. Argomentazioni, poi, che si irrobustivano con l’interesse dell’ONU di celebrare il suo sessantesimo anniversario con l’approvazione della prima Convenzione del nuovo secolo che, tra l’altro, si ascrive tra le norme internazionali più importanti sui diritti umani.
A tutto ciò si sarebbe aggiunta la chiusura del mandato di Kofi Annan che, assieme alla missione in Libano, avrebbe potuto annoverare la Convenzione tra i suoi successi. Sarebbe stato cioè ricordato come il campione dell’interruzione dell’unilateralismo statunitense e del recupero del ruolo politico verso l’intera comunità internazionale delle Nazioni Unite.
Tutte ipotesi – o meglio dietrologie – che avrebbero relegato questa Convenzione ad una funzione di orpello senza un benché minimo risultato diretto sui 650 milioni di persone con disabilità, specie nei Paesi in via di sviluppo o caratterizzati da regimi irrispettosi dei diritti fondamentali.
La partita della Convenzione
Un fatto va subito annotato: una legge internazionale regolarmente approvata potrebbe essere resa inefficace dalle procedure democratiche delle Nazioni Unite. A partire infatti dall’adesione ai principi originari delle Nazioni Unite, ogni atto ha natura volontaria e passa obbligatoriamente attraverso il consenso di ogni Stato membro il quale consapevolmente può rinunciare ad estendere la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che ha sottoscritto all’atto di adesione all’ONU, ai soggetti maggiormente discriminati della società come donne, bambini, persone con disabilità o quant’altro.
Insomma, è esattamente l’opposto di ogni forma coercitiva propria della violenza e del sopruso originati dalla guerra e dalla tirannide. Chiaro poi che questo fondamento risulta anche alla base della stessa crisi dell’ONU che ha prestato il fianco all’idea di intervento autonomo degli Stati Uniti in ogni evento successivo al settembre del 2001; ed è altrettanto evidente che il consenso è propedeutico alla possibilità di introdurre innovazioni nel campo dei diritti nei codici legislativi, nelle tradizioni e nei costumi dei Paesi membri.
La partita della Convenzione sembra quindi giocarsi su tre elementi: la sottoscrizione, la ratifica e il riconoscimento della Commissione Internazionale di Indagine. Ognuno di questi rappresenta un grado di adesione e conseguentemente un livello di valutazione del successo della Convenzione stessa.
Il livello che a noi interessa maggiormente è ovviamente nel riscontro oggettivo dei cambiamenti che la Convenzione produrrà nel garantire diritti e pari opportunità. Ma iniziamo comunque dai primi livelli sopracitati che riguardano la sottoscrizione e la ratifica.
Grandi potenze e Paesi del Terzo Mondo
I detrattori dell’azione di MacKay sostenevano che il suo metodo avrebbe allontanato i Paesi dall’adozione della Convenzione perché non lasciava loro terreno per ulteriori discussioni e possibilità di nuove forme di mediazione. E quindi alcuni Paesi non si sarebbero ritrovati nel testo. Qualcuno paventava anche che non si sarebbero trovati i 60 Paesi sottoscrittori, necessari a rendere valido il testo.
Sebbene sia presto per vendere la pelle dell’orso, va detto che il clima era ben diverso. Tra le dichiarazioni formali e riservate, così come tra le azioni dei Paesi membri, vi era ottimismo fin dall’inizio della seconda settimana di lavoro, nonostante i 170 emendamenti prodotti dalle delegazioni durante il weekend.
La Russia – che notoriamente fa rispettare la sua forza di membro permanente del Consiglio di Sicurezza – chiede la parola su un punto, il presidente passa ad un altro senza accordargliela ed essa rinuncia all’intervento senza polemiche, come non era mai avvenuto prima.
La Cina, forte della stessa caratteristica, con annesso miliardo e mezzo di persone rappresentate, presentava le sue proposte senza partecipare a forme di dialogo informale con altre delegazioni, a partire dai rappresentanti della società civile. Nella seconda settimana, invece, la potenza orientale negoziava a tutto campo.
Gli Stati Uniti, altro “pesante” membro permanente del Consiglio di Sicurezza, fin dalla seconda sessione – ormai qualche anno fa – aveva dichiarato formalmente che non avrebbe sottoscritto la Convenzione. Oltre invece ad aver evitato di porre bastoni tra le ruote al ritmo e al senso di marcia impresso da MacKay, la sua delegazione ha informalmente ammesso che al possibile cambio politico dell’Amministrazione, ci sarebbero state le condizioni per una sottoscrizione.
Allo stesso modo hanno agito un po’ tutti i Paesi che hanno presentato emendamenti, riducendoli in poche ore del 70 per cento.
Tra i più solerti in questa azione, ricordiamo le delegazioni del Venezuela e del Bangladesh, autori di decine di emendamenti. Ogni annuncio di ritiro di questi ultimi veniva sottolineato da un applauso scrosciante dell’aula, un rito liberatorio, il riconoscimento di un atto di generosità sostenuto da MacKay con un motto ripetuto decine di volte «Let us know what you can live with» («Per voi non sarà il massimo, ma lo potete accettare»).
Il capo delegazione del Costarica, leader tra i Paesi dell’America Latina che spesso rappresentava, è stato un campione di abnegazione, mettendo in campo vere e proprie qualità di “sprinter”. Alla fine della giornata di martedì [martedì 22 agosto, N.d.R.], negli ultimi minuti utili, pur di approvare un articolo in più (quello sull’educazione), si è lanciato in una corsa verso il podio del presidente il quale, preso dalla stanchezza, non trovava le giuste parole dell’ultimo emendamento e rileggeva formulazioni bocciate. Non contento, da lì si è subito precipitato alla postazione della Federazione Russa che stava puntualizzando su un elemento assai poco sostanziale, per altro superato dagli accordi informali.
Se ciò non fosse sufficiente per descrivere la positività del clima, aggiungiamo che il metodo inusuale per affrontare gli emendamenti – ovvero senza discussione – è stato accettato senza l’ombra di una protesta; inoltre, l’approvazione delle norme transitorie e il protocollo opzionale – decine di articoli – si è svolta in pochi minuti; infine, le dichiarazioni formali sono state entusiastiche e inclini ad un orizzonte immediato per l’implementazione della Convenzione.
La Commissione c’è
Tra le questioni più contese c’erano gli articoli finali sul monitoraggio internazionale della Convenzione, indicatori ultimi della volontà di praticare nei fatti il nuovo testo. In altre parole, l’entità della Commissione che dovrà operare e i suoi poteri, ossia l’ultimo livello di valutazione dell’efficacia del Comitato Ad Hoc e del futuro cammino della Convenzione.
Proprio quel dibattito, forse tra i più controversi, è stato foriero di buoni presagi.
Anzitutto va affermato con estrema chiarezza che la Commissione c’è e vede la partecipazione di esperti con disabilità non governativi, nonostante la strana alleanza Cina-USA-India-Iran avesse dichiarato ufficialmente la più netta contrarietà sia all’istituzione che alla presenza delle Organizzazioni Non Governative all’interno di essa.
Il raggio dei suoi poteri è meglio definito nel protocollo opzionale, dove vi è l’opportunità di accettare la competenza della Commissione sulle inchieste interne nei diversi Paesi e sulle denunce dei singoli cittadini.
Questo contrastato provvedimento ha consentito a numerosi Paesi di dichiarare esplicitamente la loro sottoscrizione della Convenzione perché l’opzionalità avrebbe consentito di evitare collisioni con la propria legislazione nazionale.
Si potrà obiettare che questo è un livello di depotenziamento del ruolo della Commissione ONU, ma nei fatti è ciò che esiste oggi e che tra l’altro è anche in via di riforma generale da parte del cosiddetto “gruppo di Ginevra”.
Proprio questa riforma in discussione è stato il motivo della richiesta di una completa eliminazione della Commissione da parte dell’alleanza tra i Paesi già citati. Ma, è appena il caso di ricordare, la Commissione c’è ed è dotata di poteri tra i quali persino visite di inchiesta nei Paesi sottoscrittori, nonostante non siano previste nell’articolato né della Convenzione né del protocollo opzionale. Infatti, il delegato cinese – tra i più ostili – ha avanzato una considerazione politica secondo cui, una volta istituzionalizzata la Commissione, è consuetudine delle Nazioni Unite non negare ad essa quella facoltà.
Se per le Nazioni Unite e le sue leggi il consenso è un unità di misura della futura attuazione degli impegni assunti dalle 140 delegazioni di Stati presenti, vi sono dunque tutte le premesse perché la Convenzione rappresenti una svolta storica.
Vi sono le dichiarazioni esplicite da parte dei 25 Paesi dell’Unione Europea, dei Paesi dell’area slava e dei Balcani, di quelli dell’Asia che si affacciano sull’Oceano Indiano e sul Pacifico, di molti Paesi africani e arabi, di quelli dell’Oceania e dell’intera America Latina e del Canada. Insomma, le eccezioni sono poche.
Certo, vi sono stati dei compromessi, ma l’applicazione e l’implementazione non sembrano correre alcun rischio.
La sfida del movimento
Un ruolo fondamentale lo giocheranno i movimenti associativi internazionali e nazionali. La spinta della società civile si è infatti rivelata essenziale: 800 accreditati all’ultima sessione del Comitato Ad Hoc hanno costituito una formidabile pressione di cui persino la delegazione della Cina ha dovuto tenere conto. Ed ora l’azione deve proseguire, la pressione su ogni possibile governo dev’essere esercitata.
Questa è la sfida dell’International Disability Caucus, strutturarsi e coordinare l’azione nazionale: il patrimonio di rete, di relazioni e conoscenze non può disperdersi perché sarà determinante per poter contribuire a generare il successo planetario della Convenzione, evitando l’attesa biblica di governi o amministratori illuminati.
Si tratta di una partecipazione attiva cui il movimento italiano delle persone con disabilità e dei loro familiari è già aduso. Se il nostro Paese intende rilanciare la sua funzione internazionale, dev’essere in grado di assumere iniziative sia sul piano della pacificazione di zone di guerra – vedi Libano – sia nella dimensione dei diritti umani la cui pratica è sinonimo di giustizia e libertà e pertanto di democrazia ed equità.
La strada scelta si fonda sul rilancio del multilateralismo basato sulle Nazioni Unite. Si rischia di rimanere intrappolati in scontri ideologici se la strategia non è ancorata a radici ben salde, come quelle della Dichiarazione dei Diritti Umani; è un impegno che comporta assunzioni di responsabilità nei confronti della comunità nazionale delle persone con disabilità affinché il modello inclusivo e antidiscriminatorio sia effettivo e dimostrabile. E anche nei confronti della comunità internazionale, rivedendo gli stereotipi della politica estera e della cooperazione internazionale.
In poche parole: efficienti e capaci in casa propria, per imparare a diffondere modelli di empowerment e diritti.
Un passaggio politico e non formale
Ora il prossimo passaggio sarà quello dell’approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tra la fine di questo mese di settembre e ottobre, e successivamente la sottoscrizione formale di ogni Paese, a novembre, alla quale è auspicio dei più che prenda parte il nostro ministro degli Esteri Massimo D’Alema, dando credito a quanto sostenuto nel programma dell’Unione.
Successivamente, restando al nostro Paese, dovrà esservi la ratifica con una legge del Parlamento e si dovrà costituire l’organismo nazionale per l’implementazione e il monitoraggio della Convenzione.
Ciò che per altro renderebbe vano lo sforzo prodotto all’ONU sarebbe la cosiddetta politica del “doppio binario”, lasciando cioè in disparte il tema dei diritti umani rispetto alle norme nazionali, come se, ad esempio, il problema della dignità della persona non dimorasse nel Bel Paese.
E la segregazione in istituti come quello di Serra d’Aiello, in Calabria, più volte denunciata da Superando.it o in casa per mancanza di assistenza personale, dove le mettiamo? Dove mettiamo la spersonalizzazione che si vive negli istituti? E la coercizione senza assistenza?
In questi casi si usa ricorrere ad un noto luogo comune, vale a dire «cose da Terzo Mondo», attribuendo loro un accento negativo per la ricchezza del nostro Paese. Vox populi vox dei, è il caso di affermare: molte persone con disabilità oggi in Italia vivono in condizioni considerate violazione dei diritti fondamentali.
Il momento della ratifica non sarà formale, ma politico, a partire dalla definizione di persone con disabilità, eliminando termini come diversamente abile, invalido, handicappato ecc., tutte parole che generano stigma sociale.
La ratifica non sarà indolore nel sistema di protezione sociale e di assistenza, per il settore educativo, per le politiche dell’infanzia, nell’occupazione e nella mobilità, nel sistema di riabilitazione – che è altro rispetto all’organizzazione sanitaria medico-centrica – per le donne con disabilità e molto altro.
Dovrà costringere poi il nostro sistema Paese ad affrontare più dignitosamente l’aspetto dell’interdizione perché la Convenzione non si affida solo al sistema giudiziario per la tutela degli interessi e la salvaguardia del benessere della persona con disabilità non in grado di rappresentarsi da sola.
In sostanza, la ratifica dovrà essere altro da come è stata gestita quella delle donne delegata al Ministero delle Pari Opportunità che nel 2004 ha redatto il consueto rapporto di monitoraggio per l’ONU, in modo lacunoso e superficiale ai limiti della vergogna, ad esempio non tenendo conto, neanche per sbaglio, del dibattito sulle cosiddette “quote rosa”.
Appare quindi quanto mai necessario dotarsi degli strumenti adeguati, a partire dall’organismo di implementazione che non va disgiunto da quello di coordinamento di cui all’articolo 41 bis della Legge 104/1992.
Ed è necessario che il Parlamento modifichi norme in vigore, come anche che le autonomie locali adeguino la propria organizzazione, per generare una svolta significativa per le persone con disabilità.
Ancor di più: è indispensabile adoperarsi all’istituzione di un’autorità indipendente per la tutela e la promozione dei diritti umani – tutti i diritti umani – come già avviene in molti Paesi occidentali e non.
Bisogna giocare d’anticipo!
La ratifica non sarà quindi un passaggio banale e richiederà una partecipazione attiva, consapevole e capace delle associazioni. Un ruolo essenziale, questo, che dovrà essere costruito dal basso, dalle organizzazioni territoriali affinché i princìpi generali producano pratiche effettive ed efficaci.
Il cammino già percorso dalla FISH con il Progetto EmpowerNet è stata una buona intuizione: va rafforzato, bisogna giocare d’anticipo, evitando le consuete strumentalizzazioni del volontarismo acritico o dell’impresa – profit e non – che trova nuove parole a motivare vecchie prassi segreganti.
*Presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Advisor (consigliere) della Delegazione Ufficiale Italiana all’ONU, in occasione del Comitato Ad Hoc (Ad Hoc Committee) che ha definito la Convenzione per i Diritti delle Persone con Disabilità.
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